La serata diapositive

ovvero l’amichevole imposizione dell’egotismo

Ieri come oggi, tolleriamo di buon grado una particolare forma di invadenza dell’ego altrui nella nostra sfera privata, forse perché sotto sotto sappiamo che anche noi non siamo immuni da questa debolezza narcisistica. Perché come definire – se non “debolezza narcisistica” – la pretesa che il resoconto fotografico di una nostra esperienza tutto sommato banale come una vacanza possa interessare altri?

Mentre oggi la sottomissione a questa pretesa comporta nella maggioranza dei casi solo un sopportabile stillicidio di foto di amici o conoscenti all’interno delle nostre telematiche bacheche sociali, ieri poteva assumere una forma quasi vessatoria qualora si fosse concretizzata nella famigerata “serata diapositive”.

A quei tempi, prima della diffusione di internet, e comunque prima che trasferissimo la gestione delle incombenze sociali in una remota quanto pervasiva virtualità, la condivisione di foto vacanziere era qualcosa che per forza di cose si doveva svolgere in una dimensione spaziotemporale univoca e concreta, con tutti gli oneri che ciò comportava per entrambe le parti in causa. Spesso questa condivisione si riduceva al passaggio di mano in mano di raccoglitori fotografici distribuiti dall’autore agli ospiti riuniti a tal uopo: modalità di condivisione che lasciava ampi margini agli osservatori nel gestire i tempi di fruizione e la soglia di attenzione da dedicare alle singole foto, e che come unica accortezza richiedeva l’emissione di qualche interiezione di approvazione ogni tanto. Questo era il best case scenario.

Il worst case scenario avveniva invece quando si era convocati da amici/parenti ai quali non difettava il pallino per l’attrezzatura fotografica, una sovrastima del proprio vissuto esperienziale e una certa indole comunicativa. Mix di fattori che portava appunto alla citata “serata diapositive”.

A beneficio delle nuove generazioni, rievochiamo a cosa si andava incontro partecipando a una di queste serate.

 

In una sala buia assistiamo con dissimulata rassegnazione a una serie di immagini vacanziere eteroriferite che si alternano luminescenti di fronte a noi, la cui successione è scandita dai ritmi inesorabili e imperscrutabili di quella figura che ne è al contempo cicerone, autore e talvolta protagonista. Figura che tiene in ostaggio una risorsa tanto preziosa quanto in costante esaurimento come il nostro tempo vitale, e per la quale proviamo sentimenti ambivalenti, in pieno cliché da sindrome di Stoccolma.

Non sappiamo quanto durerà questo scotto da tributare all’amicizia, ma ci vuole poco a valutare come i caricatori stanziati minacciosi a fianco del proiettore siano colmi dei più foschi presagi.

Mentre facciamo queste tristi considerazioni, le foto che ci baluginano davanti, il cui bagliore ci offende, tanto contrasta con l’oscurità in cui ci hanno costretti, si susseguono aliene da ogni nostro genuino interesse, riguardando momenti di vita altrui, per di più sfacciatamente lieti (in caso contrario un po’ di sana schadenfreude avrebbe risvegliato in noi almeno un cinico interesse catartico).

 

Trovate il tono della reminiscenza qui sopra tutto sommato verosimile, al netto dell’enfasi funzionale a creare un certo pathos narrativo? Se è così fareste meglio a ricredervi, perché questa narrazione è inficiata da un vizio di forma non da poco: è rievocata dal punto di vista di uno scafato homo technologicus contemporaneo, avvezzo a recuperare a stretto giro di click (o di “tap”, ça va sans dire) qualsiasi immagine su qualsiasi soggetto concepibile. Tronfi di questa onnipotenza scrutatoria, abbiamo declassato un media così carico di implicazioni emotive come la fotografia – qualsiasi fotografia capiti sotto i nostri bulimici occhi – al rango di una banale prodotto primario dell’ambito percettivo. Da qui l’assunto che oggi riterremmo una gran seccatura ipotecare il nostro tempo per assistere passivi a una sfilata di foto altrui.

Il worst case scenario avveniva invece quando si era convocati da amici/parenti ai quali non difettava il pallino per l’attrezzatura fotografica, una sovrastima del proprio vissuto esperienziale e una certa indole comunicativa. Mix di fattori che portava appunto alla citata “serata diapositive”.

Bisogna quindi fare atto di umiltà intellettuale e contestualizzare meglio l’epoca d’oro della “serata diapositive” in almeno due aspetti. Solo così possiamo considerare senza cinica ironia il valore che questa pratica aveva agli occhi di chi vi partecipava.

 

A quei tempi almeno due cose del nostro quotidiano non erano ancora inflazionate.

Una l’abbiamo già vista: le foto, quelle nostre e dei nostri cari, avevano un potere di coinvolgimento maggiore. Medium molto meno pervasivo rispetto a oggi, il suo formato ancora analogico lo rendeva intrinsecamente più complicato e costoso da ottenere, condividere e duplicare  (sì, esistevano i negativi, ma presupponevano tutt’al più un duplicabilità in potenza). Oggi, compiutasi la trasmutazione verso un’immaterialità digitale, la riproducibilità di questo medium assume una magica caratteristica di immediatezza. Le nostre foto, esistenti nella maggioranza dei casi nella forma di un’astrazione binaria, si prestano a una proliferazione esponenziale: da qui il loro essere diventate un bene inflazionato.

L’altra cosa che non risultava ancora inflazionata era il concetto di amicizia.
(Prima di  procedere, un piccolo disclaimer: trattare un tema universale e sfaccettato come l’amicizia dovrebbe esulare dal cabotaggio speculativo di questo scritto, ed è probabile che molti di voi storceranno il naso, non ritrovandosi in quanto verrà esposto… ci può stare, ma considerate le riflessioni che seguono più relative a una tendenza filogenetica che a un’eccezione ontogenetica, se mi passate l’analogia)

Da un po’ di tempo ci siamo adagiati sull’idea che coltivare un’amicizia si riduca ad annaffiare con qualche compiacente commento (o, in maniera ancora più deresponsabilizzante, “like”) i pensierini che un surrogato digitale dei nostri amici semina di tanto in tanto nella liquida inconsistenza delle nostre bacheche elettroniche. Abbiamo ridotto la pratica della dialettica amicale a un’asettica dimensione testuale e multimediale. Il concetto stesso che questi social network attribuiscono al termine “amico” è così lasco da contenere qualsiasi persona clicchi un apposito bottone per autoproclamarsi tale nei nostri confronti.

Era un’esperienza autenticamente partecipativa, che ti rimaneva dentro, lontana da quella odierna consumata in solitudine, osservando distrattamente, attraverso uno schermo, fotografie che in una frenesia solipsistica smetteranno di esistere non appena usciranno dal nostro campo visivo.

Mai come oggi ci riempiamo la bocca di concetti come “amicizia” e “sociale” (quest’ultimo reso meno demodè troncando l’ultima vocale), quando in realtà siamo entrati in un’epoca di socialità simulata, di amicizia elusa attraverso la scorciatoia del virtuale. La “serata diapositive” dell’epoca “pre social”, quella sì che era un fatto sociale, per l’intima comunione che si creava nel momento in cui ci si trovava tutti a condividere qualcosa nel medesimo luogo e momento.

Era un’esperienza autenticamente partecipativa, che ti rimaneva dentro, lontana da quella odierna consumata in solitudine, osservando distrattamente, attraverso uno schermo, fotografie che in una frenesia solipsistica smetteranno di esistere non appena usciranno dal nostro campo visivo.

 

Va da sé  quindi, che durante i vecchi tempi in cui fotografia e amicizia avevano un significato più profondo, la “serata diapositive” poteva essere vista non per forza come una calamità sociale, ma come una piacevole opportunità 1) di vedere posti nuovi e di averne indiretta esperienza attraverso chi ci era stato, 2) di passare una serata con amici che non sentivamo da tempo, perché ancora non ci saturavano quotidianamente la timeline dei nostri venturi social network con le loro minchiate.

 

E a mo’ di postilla, eccovi una perspicace osservazione a margine! C’è un rituale in uso ancora oggi nel quale possiamo ritrovare alcune vestigia dell’antica “serata diapositive”. Sebbene la maggior parte dei nostri scatti venga ormai condivisa da remoto, una particolare tipologia di foto necessita ancora di un pubblico attivo e tangibilmente presente, e se possibile predisposto a una certa piaggeria nell’elargire feedback. Anzi, necessita di un vero e proprio cerimoniale epifanico, perché in questo caso specifico si tratta di presenziare al simbolo di uno status sociale acquisito, piuttosto che a delle semplici immagini che riguardano amici o parenti. Mi riferisco all’“album di nozze”, ostentato dai neosposi come sacro suggello di una nuova fase esistenziale di reciproca maturità adulta.

 

E se permettete una postilla alla postilla, chi come il sottoscritto ha frequentato ormai un certo numero di neosposi e relativi album, non può fare a meno di considerare come in quest’ambito il linguaggio fotografico sia scivolato verso uno stucchevole manierismo, che relega i due protagonisti a figuranti da immortalare in pose e contesti scenografici da template fotoromanzesco. Ma forse è proprio quello che vogliono gli sposi committenti, ritrovarsi nei rassicuranti e ipercodificati cliché romantici da “coronamento del sogno di una vita” che ormai fanno parte del canone stilistico di ogni memorabilia matrimoniale che si rispetti.

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