Forse, come me, bisogna amare opere d’intrattenimento demodè come i romanzi di Achille Campanile o i film di Luciano Emmer, per apprezzare le vignette di Giuseppe Novello, garbato e salace fustigatore della piccola borghesia dell’Italietta tra le due guerre e dell’immediato dopoguerra. Chi, meglio di lui, ha saputo mettere alla berlina il ceto medio di quel periodo, narrandone le innocenti meschinità mondane, il suo desiderio di elevarsi socialmente (che, ci immaginiamo, sarà destinato a generare sempre frustrazione), emulando pedestremente i modi e i costumi delle classi più elevate?
Ecco allora un mio tributo a questo grande autore satirico, presentando le migliori vignette (ma sarebbe meglio chiamarle “quadri d’interno”) tratte dal volume Un signore di Buona Famiglia, uscito nel 1934 e ristampato fino al 1995.
Essendo questo libro non più in catalogo, spero che l’editore non ne abbia a male se offro questo servizio alla collettività.
Per che volesse approfondire, riporto la prefazione all’edizione del 1985 curata da Carlo Fruttero e Franco Lucentini (se invece volete andare direttamente alle vignette, qui c’è la scorciatoia):
Bonaria, affabile, indulgente, non più che garbatamente maliziosa apparve ai suoi contemporanei la vena satirica di Giuseppe Novello. I suoi disegni schioccavano settimanalmente come un’allegra frustatina, che bruciava un momento lasciando appena il segno. E tuttavia, col passare degli anni, dei decenni, quegli esili segni non sono per niente impalliditi, svaniti. Potrebbero, dovrebbero essere un amabile documento su come si rideva mezzo secolo fa; ma la loro datata innocenza non ci persuade, la loro affettuosa levità ha qualcosa di ambiguo. Anziché attivare in noi i tradizionali riflessi della nostalgia, la rivisitazione ci lascia soprattutto perplessi.
Osserviamo i personaggi. Certo, non fanno mai niente di straordinario. Salgono e scendono scale, vanno molto in tram e in bicicletta, poco in automobile, siedono volentieri a tavola e in salotto, ammirano vetrine, comprano oggetti, visitano parenti, ascoltano noiosi conferenzieri e concertisti, passano le vacanze al mare e in montagna. Da queste loro attività è escluso ogni eccesso, ogni scarto verso il surreale o il truculento, ogni estro morboso, osceno, sadico, folle. La loro vita si svolge in un mondo limitato e senza chiaroscuri, dove non ci si possono aspettare sprofondamenti agli inferi o assunzioni in cielo. Un mondo registrato sulla norma, tarato in base a criteri di decoroso e prevedibile, perbenismo.
È il piccolo mondo della piccola borghesia italiana tra le due guerre.
Novello dà l’impressione di stare interamente al gioco, di non prendere quelle distanze che altri disegnatori di costume, in altri tempi e paesi, ferocemente presero dai loro modelli. E d’altra parte viene spontane o chiedersi che cosa avrebbero potuto, saputo fare di meglio un Hogarth, un Daumier, avendo a disposizione gente simile. Il sarcasmo, lo scherno, l’invettiva, hanno bisogno di bersagli di una certa statura, così come l’arcangelo vendicatore non può scomodarsi per meno di Sodoma e Gomorra. Ma già questi angusti orizzonti tra i quali Novello rinserra i suoi eroi mediocri rappresentano di per sé una condanna, forse la più definitiva.
Né si può non tener conto del fascismo. Fuori questione a quei tempi ogni sberleffo politico, diretto, indiretto o vagamente allusivo; ma è probabile che la censura avrebbe comunque vietato al pur apolitico Novello di essere più « cattivo ». Non guastava, essendo l’Italia « proletaria e fascista », che le sue « vignette » deridessero un certo tipo di borghesuccio poco amato dal regime; ma la critica doveva svolgersi senza esagerazioni « disfattiste » e « controproducenti ». La Nazione, ormai rinnovata, ringiovanita, marzializzata, poteva permettersi qualche risatina nei confronti di una minoranza ancora insensibile ai venti della grandezza e della gloria, ancora impantanata nelle paludi dell’Italietta.
Si trattava naturalmente di un equivoco. I borghesucci di Novello erano maggioranza, erano l’essenza stessa del fascismo. Anche se in queste tavole non compare mai una camicia nera, un fascio, un distintivo all’occhiello, è evidentissimo che di là, nell’armadio, sono pronti gli arnesi del consenso, fez e sahariane, stivali e giubbe di orbace, cinturoni e medaglioni e fazzoletti e pugnali e mantelline. Ad eccezione della vecchia domestica e della decrepita zia, l’intera famigliola parteciperà all’adunata; a quei balconcini verranno esposte le bandiere nei giorni comandati; attorno a quei mobiletti-radio si affolleranno tutti per ascoltare i discorsi del Duce. Il fascismo – con labari, aquile, inni, parate, tonanti slogan, audaci trasvolate, colli fatali e quaranta milioni di baionette – preme invisibile attorno ai disegni di Novello, ne costituisce non tanto il background politico, quanto il segreto riscatto fantastico, la consolatoria compensazione, la principale via d’evasione dallo squallore di quei quattro muri domestici. Di altre illusioni gli inquilini ne hanno infatti ben poche. Mete infime, successi minuscoli, rivincite, festicciole, speranze, ambizioni, sogni di basso profilo. Anche il rovescio negativo della vita ha un’aria dimessa, le gaffes, le figuracce, i contrattempi, le categorie odorano d’indigenza, di taccagneria mentale, di remota e gretta provincia.
Eppure il lettore d’oggi sfoglia questi album con un senso di malessere. Attorno a lui le cose sono enormemente cambiate, le finestre si sono aperte sull’intero universo, i venti della democrazia parlamentare, della rivoluzione tecnologica, dei mass-media, dei supermercati, del cosmopolitismo, della cultura hanno rinnovato da cima a fondo la Nazione. In cucina non si aggirano più le arcigne serve, le burrose cuoche ricorrenti negli « interni » di Novello. I ritratti dei nonni sono stati tolti dal corridoio e dal salotto, i mobili, i soprammobili, i ninnoli sono stati sostituiti o ricuperati in chiave « spiritosa », gli abiti dei mariti, le chiome delle mogli hanno un diverso taglio. Più niente è riconoscibile…
Eppure c’è qualcosa di non caduco, di non legato alla defunta attualità, all’effimera sociologia di ieri e dell’altro ieri, nel teatrino del « buon » Novello, del « gentile » Novello. Qualcosa che persiste, che sopravvive intatta attraverso ogni contesto, ogni mutazione, e che c’impedisce di chiudere il libro con un sorriso di superiorità, che ce lo fa risfogliare, ricontrollare sospettosamente…
E infine, tramite quelli che mezzo secolo fa si chiamavano « lo specchio dell’anima », il delicato fustigatore si tradisce. Scopriamo infine che il vero genio di Novello, ciò che rende i suoi disegni insieme folgoranti e memorabili, è concentrato negli sguardi. Sguardi arroganti, sprezzanti, minacciosi, rassegnati, costernati, ebeti, viscidi. Occhiate al cielo e in tralice, di trionfo e di vergogna, di gioia maligna, di abissale umiliazione, di livore, scandalo, odio, invidia, di boriosa condiscendenza, di cupidigia, ferocia, abietto servilismo, torva ipocrisia. Isolati, ingranditi, questi « particolari » formerebbero una casistica senza tempo, degna di Giovenale come di La Rochefoucault; queste pupille dilatate o contratte potrebbero plausibilmente appartenere a dame e demagoghi dell’Atene di Pericle, queste sopracciglia inarcate, queste palpebre socchiuse, sarebbero del tutto realistiche tra i cortigiani bizantini, i salotti del Direttorio, nella Vienna di Schnitzler, nella Londra di Wilde. E dunque, a maggior ragione, nell’Italia postnovellíca.
Con un minimo di lucidità e un po’ d’immaginazione ognuno potrà divertirsi a eseguire i trapianti da sé, a spostare la signora della pensione Nettuno in un bungalow delle Seychelles, a far viaggiare il rapido delle 11,35 con 140 minuti di ritardo, a introdurre tra due usci cameriere somale e filippine, ad avviare il pullman dei pensionati verso la grande mostra di Manet, ad aggiornare la spiaggia con figlie in topless e figli rincretiniti dai videogiochi e dagli stereo, a far scrivere alla nonna un best-seller sui suoi trascorsi amorosi, a mettere il capofamiglia al volante di una fuoristrada per andare in ufficio. Mentre tutto attorno preme l’Italia esasperante e ridicola dei pentapartiti e delle verifiche, dei ministri che s’ingiuriano e delle leggi che nessuno capisce e nessuno applica, della burocrazia del cappuccino, del pettoruto sommerso, del terziario spavaldamente avanzato, del falso invalido, del doppio lavoro, del parcheggio in seconda e terza fila, del festival, del recital, del concorso, del convegno, dell’intervista, dell’inchiesta…
Sì, le cose sono cambiate, si sono infinitamente complicate e moltiplicate. Ma ancora gli stessi sguardi le tengono impietosamente insieme, ancora negli innumerevoli interstizi si coglie, nettissima, l’unghiata crudele del « buon » Novello, l’indelebile cicatrice.
Carlo Fruttero
Franco Lucentini